Qualche decade fa, dopo anni di pratica e studio delle arti orientali, presi pienamente coscienza che a me non interessava diventare buddista o induista o taoista, né tantomeno un teorico esperto di qualsivoglia disciplina orientale. Non cercavo fughe dalla realtà ma comprendere la Realtà. Non volevo controllare la mente ma liberare la mente.
Mi lasciava indifferente la conoscenza astratta di certi adepti delle differenti correnti di pensiero orientali con cui venivo a contatto, mentre, mi interessava la scoperta di nuove potenzialità psicocorporee basate sull’energia vitale interna e sulla sperimentazione di linguaggi alternativi alla logica discorsiva per comunicare con le emozioni e con la parte selvaggia del mio essere, per recuperare quella spontanea globalità d’azione, quel diverso approccio metodologico, all’arte del corpo e della mente.
Ero stufo di seguire la via senza fine e senza uscita della conoscenza che porta alla verità, di studiare gli innumerevoli sistemi e modelli interpretativi elaborati nel corso dei secoli dalle diverse tradizioni religiose, filosofiche e scientifiche, che un bel giorno mi si rivelarono per quello che, in effetti, erano: rappresentazioni virtuali, descrizioni approssimative della realtà che, se non giustamente interpretate falsano la percezione di se stessi e allontanano dalla vera natura.
Presa di coscienza che mi lasciò in una sorta di “deserto esistenziale” senza punti di riferimento e con un dubbio atroce: essere afflitto da una sorta di arrogante presunzione che mi accecava.
Non fu semplice uscire dal quel “vicolo cieco” in cui io stesso mi ero infilato, e tantomeno uscire da quella sala degli specchi dove ogni specchio rifletteva un’immagine diversa. Immagini tutte belle e affascinanti, ma appunto immagini, riflessi evanescenti che, mi resi conto, non solo condizionavano pesantemente il mio pensiero e il mio stesso agire, ma mi rendevano cieco a me stesso.
Mi resi anche conto, che dovevo compiere una vera e propria operazione alchemica: estrarre l’essenza – libera da ogni condizionamento ideologico, filosofico, culturale – di una conoscenza acquisita in anni di studi, ricerche e renderla operativa e funzionale nella mia pratica del taiji e dello yoga.
E così feci, ma non fu affatto facile, anche perché intorno a me vedevo – e purtroppo ancora vedo, solo praticanti che in maniera acritica ripetevano gesti e rituali vuoti richiamandosi a una “tradizione passata” di cui, oltretutto, non potevano avere – e non hanno – nessuna conoscenza diretta. Nessuno può sapere come si praticava yoga o taiji quan, né quali pensieri agitavano la mente di un monaco zen nei secoli passati.
Cosa si sa della “chitta” (mente) del famoso sutra “yoga chitta vritti nirodha” di Patanjali? Del wu wei (lo stato senza intenzioni) del taiji quan? Come si ricerca qualcosa che non si sa cosa sia esattamente (verità, satori, samadhi)? Come si può capire la chitta/mente dello yoga o lo xin/mente-cuore della tradizione taoista con una struttura mentale prigioniera della logica discorsiva e del principio di non contraddizione? Come si può pensare di potere praticare lo yoga e/o il taiji senza un imprescindibile e specifico lavoro di preparazione sulla struttura interna e profonda del corpo e sui propri schemi mentali?
Pensare che un corpo pieno di tensioni si liberi, si consapevolizzi “facendo/imitando” le asana dello yoga o si raggiunga la calma della mente copiando la lentezza del taiji, che una mente bloccata si sblocchi sedendosi a fare meditazione zen e come pensare che sfregando un mattone lo si possa trasformare in uno specchio. Raramente si vede un praticante, anche di alto livello, che sia riuscito a trasferire l’armonia e la grazia che esprime nella sua specifica arte nella vita di tutti i giorni: si muovono con grazia durante la pratica sono sgraziati al di fuori.